Da quando Josema Odriozola e Karin Frisch hanno iniziato a mostrare al mondo la bellezza del Wavegarden, e cioè l’onda artificiale generata da una forza meccanica che più si avvicinava a quella generata dalla natura in condizioni ottimali, per il surf è iniziata una nuova era. La Wave Pool nella storia del surf ha una data ben precisa. Era il 1903 quando Hofrat Hoeglaner brevettò la sua idea di generare onde in acqua dolce, immergendo e ritirando alternativamente dei corpi solidi in acqua. Mentre dobbiamo aspettare due anni, il 1905, perché il primo esperimento avesse luogo nel lago Starnberg.
Esattamente cento anni dopo, sempre in Europa, a circa 1500 km da quel lago a sud ovest di Monaco Di Baviera, nei paesi baschi spagnoli venne costruito il primo prototipo di Wavegarden. Non che in questi cento anni non ci siano state altre tipologie di onde artificiali, ma senza dubbio, quella spagnola, è stata l’onda che ha segnato l’inizio di una nuova corsa all’oro. E proprio di corsa all’oro si deve parlare, perché, al di là della controversia generatasi tra puristi, cioè coloro che nella tecnologia vedono la distruzione dell’essenza del surf, e tra coloro che credono che il surf sia surfare le migliori onde possibili, siano essere naturali siano esse prodotte dall’uomo, le Wave Pool hanno creato delle «enclave esclusive».
É bene sottolineare questo: le Wave Pool non sono assolutamente Skate Park seppur il parallelismo è fisiologico, e non sono neppure strutture democratiche. Sono degli splendidi spazi delimitati e a pagamento per utenti con un portafoglio adeguato al soddisfacimento del bisogno. L’inganno creato sta proprio nella considerazione che l’onda artificiale sia un’alternativa all’onda naturale in termini di accessibilità. Non solo un’alternativa ma anche un modo per lo sviluppo a livello globale del surf soprattutto in luoghi lontani dalla costa.
Come lo stesso Kelly Slater – fondatore della Kelly Slater Wave Company – afferma, l’onda artificiale “democratizzerà la pratica del surf”. Concetto affascinante, se lo si contestualizza da un punto di vista geografico, tuttavia se lo si contestualizza da un punto di vista socioeconomico, l’onda diviene prodotto e quindi ha un costo, di certo non irrisorio che di democratico ha ben poco.
Nella geopolitica delle wave machine al momento sono quattro i big player sul mercato la cui tecnologia è in grado di produrre divertimento lontano dalla costa. Nello specifico sono Wavegarden, Kelly Slater Wave Company, Surf Lake Australia, AmericanWaveMachine. Volete fare surf presso lo UrbnSurf (Wavegarden technology) a Melbourne? Mettete mano al portafogli e siate pronti a sganciare una cifra non inferiore a 59 dollari australiani per una travolgente ora di surf. Siete in Texas e volete surfare l’onda del CablePark e siete di un livello intermedio? Vi bastano per un’ora “solo” 75 dollari. Volete provare l’onda di Kelly Slater? Non potete, a meno che non vogliate affittare il ranch per un giorno alla modica cifra di 55,000 dollari in alta stagione o 33,000 dollari in bassa stagione. 8 ore di surf producono 120 onde al costo di 450 dollari a onda in alta stagione e 275 dollari in bassa stagione. Però in periodo WSL potete approfittare delle vantaggiosissime offerte che vi permettono un surf training a 3.500 dollari giornalieri. Quello che sta accadendo più in generale nel mondo del surf, che sia una Wave Pool o uno spot vista oceano, è la creazione o sviluppo dello spazio legato allo sport da tavola per utenti progressivamente più ricchi, o per dirla con un neologismo, la Surfication.
Questa curva ascendente se da una parte è legata allo sviluppo del surf come mai nella storia, poiché sempre più persone si avvicinano alla pratica di questa disciplina, dall’altra è strettamente legata allo sviluppo del turismo di massa. “La mobilità – come fa notare Rodolphe Christin in Turismo di Massa e Usura del Mondo – è diventata un fattore che dà efficacia alla propria performance esistenziale, è un modo per riempire la propria vita e realizzarne gli obiettivi” e dunque il tempo libero e il viaggio è diventato un bene di consumo. “Il potere incantatorio dell’industria turistica, sta proprio sulla sua capacità di dissimulare il carattere apertamente industriale che la contraddistingue”.
I villaggi di pescatori, i piccoli paesi distanti chilometri dai centri abitati divengono delle comfort zone in cui accudire il viaggiatore in cerca di angoli incantati, in cui il l’onda è la magica ed irresistibile attrazione. E la creazione di questi “paesi resort” provoca un’inevitabile lievitazione dei prezzi al rialzo. Un valore economico non determinato dalla quantità e dalla qualità dei servizi offerti ma dalla quantità e dalla qualità della natura delle onde.
La dimensione industriale del surf, dal surf trip al surf park passando per il materiale di costruzione delle tavole e delle mute ha cambiato il surf e il suo impatto nei confronti della società e dell’ambiente. L’approccio ecologico e la considerazione che il surfista sia un amante della natura non basta a sottrarci dall’appiattimento culturale che questo universo sta subendo per mezzo dell’ideologia della competizione. Non basta mangiare vegan, camminare scalzi, coibentare un furgone, nutrirsi di uva sultanina, alzarsi all’alba, scoprire nuovi spot per considerarsi attori di un movimento contro culturale. Per iniziare a pensare al surf come a qualcosa che sia una forza creativa, alternativa ed egualitaria dovremmo iniziare a non soffrire di FOMO (Fear Of Missing Out), cioè dalla paura di essere tagliati fuori, dalla paura di non esserci che ci porta ad essere presenti, qui come altrove, in cerca di sempre migliori performance, sia fisiche, sia sociali e a considerarci portatori più di altri di una rappresentazione quanto più fedele dello spirito del surfer. D’altronde i movimenti contro culturali hanno sempre discusso il principio di autorità ed omologazione, cercando di proporre un’alternativa che fosse avanguardia e anti-sistema e non mera rappresentazione narcisistica pro domo sua.
Wave pool Photo: KS Wave Co
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Gennaio 15, 2020 at 2:39 am
Un articolo ben scritto e probabilmente dovuto, dati i tempi.
Ma che non mi trova d’accordo su diverse cose.
“..le Wave Pool non sono assolutamente Skate Park seppur il parallelismo è fisiologico, e non sono neppure strutture democratiche. Sono degli splendidi spazi delimitati e a pagamento per utenti con un portafoglio adeguato al soddisfacimento del bisogno. L’inganno creato sta proprio nella considerazione che l’onda artificiale sia un’alternativa all’onda naturale in termini di accessibilità. ”
Non sono d’accordo. Non penso che esista qualcuno che pensi che una struttura del genesia possa essere gratis. Questo approccio e’ pretenzioso.
La promessa della wavepool e’ invece un’altra e piu’ rilevante (a mio parere).
Ossia, fronte il pagamento del biglietto d’ingresso, ti elimino dal gioco le dinamiche perverse, inibitorie e discriminatorie delle line-up e ti assicuro l’accesso alla migliore onda disponibile, per un numero di volte prestabilito e garantito, sia che tu ti chiami Parko che Carlo Rossi. Niente line-up a creare discriminazione per bravura o aggressivita’. Tutti uguali.
E questo e’ il motivo per cui uno possa pensare che ne valga la pena.
Il prezzo del wavegarden in Australia e’ assolutamente alla portata di chiunque abbia un lavoro. Ed e’ sicuramente lo stesso per gli altri parchi. Se non te lo puoi permettere, hai ben altri problemi da risolvere prima di andare a surfare.
Il prezzo di zio Kelly non fa testo perche’ quello e’ solo un prototipo per attrarre investitori. Qui si mischiano mele e pere. Che poi ci sia gente che sgancia cifre assurde per usarla lo stesso e’ come lamentarsi di chi puo’ comprarsi una Lamborghini.
Contemporaneamente, a meno che tu non viva davanti alla spiaggia (minoranza), per surfare devi spendere comunque (maggioranza). Ed inquinare in ogni caso.
Giusto il discorso sul turismo di massa, ma qui si dovrebbe mettere in discussione tutta la cultura occidentale direi, e presentarsi alle elezioni o fare la guerra.
“L’approccio ecologico e la considerazione che il surfista sia un amante della natura non basta a sottrarci dall’appiattimento culturale che questo universo sta subendo per mezzo dell’ideologia della competizione. ”
Quale competizione? Di mercato, si. Sportiva, no perche’ c’e’ sempre stata.
Casomai e’ la cultura dell’apparire che sta facendo molti danni su tutti i fronti della societa’.
Poi “l’approccio ecologico del surfista” e’ un controsenso di per se, ed una visione nata negli ultimi decenni, che non esisteva prima.
“Non basta mangiare vegan, camminare scalzi, coibentare un furgone, nutrirsi di uva sultanina, alzarsi all’alba, scoprire nuovi spot per considerarsi attori di un movimento contro culturale.”
Ma perche’, chi vuole considerarsi parte di un movimento controculturale? Ma de ghe’?
A chi puo’ importare una sciocchezza del genere davanti al piacere della pratica del surf? Io qui ci vedo un bisogno di atteggiarsi davanti agli altri.
Ora non mi rivolgo assolutamente all’autore dell’articolo, ma in generale, ripeto, bisognerebbe ricordarsi che il surf e’ divertimento.
Se si ha il tempo ed i mezzi per andare a surfare, si dovrebbe pensare a divertirsi. E non fare i finti alternativi, anacronistici, che hanno i soldi per andare a Bali ma camminanano scalzi e che si sentono migliori di chi vuole divertirsi in una wavepool.
Grazie per lo spazio.
Gennaio 15, 2020 at 7:57 am
Ottimo articolo, finalmente un po’ di cultura anche nel surf